Riso: valorizziamo la nostra produzione con politiche efficaci

06/11/2014

Le operazioni di raccolta del riso sono giunte quasi al termine, ma l’annata è fortemente in ritardo a causa dell’andamento climatico. La superficie italiana coltivata si attesta sui 219mila ettari, leggermente in crescita rispetto allo scorso anno (+3mila), ma il comparto è in difficoltà sia per la forte concorrenza dai Paesi meno avanzati (PMA), sia per i ridotti consumi interni. “L’andamento generale dei mercati ci fa dire che è impensabile raggiungere le superfici coltivate fino a qualche anno fa, che hanno sfiorato i 250mila ettari” afferma il presidente dell’Ente Risi Paolo Carrà. L’importazione da alcuni PMA è favorita dalla mancanza dei dazi a livello europeo: il documento presentato dal governo italiano ai fini dell’applicazione della cosiddetta “clausola di salvaguardia”, per cercare di limitare le importazioni senza barriere dai Paesi asiatici e non affossare il comparto italiano, è stato più volte oggetto di revisione e si è ancora in attesa di un pronunciamento da parte della Commissione europea. Nel frattempo le importazioni di riso lavorato, solo dalla Cambogia, sono arrivate a sfiorare le 290mila tonnellate.
La nostra produzione, coltivata da 4mila aziende risicole, è qualitativamente superiore, ma i prezzi sono in caduta libera a causa proprio delle forti importazioni: per i risi Indica (Lunghi B) le quotazioni sono di 25 euro al quintale; lo scorso anno si aggiravano sui 32 euro. I Tondi sono valutati tra i 28 e i 30 euro, lo scorso anno 33 euro/q. I risi Lunghi A (parboiled e da risotti) a fatica raggiungono i 35 euro. Gli unici a mantenere quotazioni alte sono le cosiddette varietà storiche (Carnaroli, Baldo, S. Andrea, Roma, Vialone nano) che superano ampiamente i 50 euro al quintale. Si tratta però di varietà che rappresentano soltanto il 10% dell’intera produzione risicola italiana.
Alessandro Quaglia, presidente della Sezione Riso di Confagricoltura Piemonte, aggiunge: “Dobbiamo valorizzare la nostra produzione ed essere trasparenti con il consumatore, ma il percorso è lungo: noi esportiamo circa il 70% dei raccolti, ma la richiesta esterna non si focalizza sulle nostre varietà storiche, bensì sulle qualità che hanno nei paesi PMA i principali concorrenti. Infine, bisogna lavorare sodo anche per rilanciare i consumi interni, fermi da anni”.